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Il moto delle cose di Giancarlo Pontiggia

In Il moto delle cose (Mondadori, 2017) Giancarlo Pontiggia tratteggia con poche parole “limpide e severe” un levigato ma intensissimo polittico di immagini e di pensieri che mettono in tensione il tempo e l’eterno. E lo fa puntando al cuore dell’enigma del nostro stare al mondo. Fra la percezione della nostra ineluttabile caducità “terrestre” e il senso di tragica spaesatezza susseguente all’apertura dello sguardo sugli sconfinati spazi cosmici.

Non c’è, oggi, in Italia, un poeta più fecondamente inattuale di Giancarlo Pontiggia. La sua ormai quasi leggendaria parsimonia editoriale (sessantacinquenne, Pontiggia ha esordito a quarantasei anni e ha dato alle stampe, per adesso, soltanto tre libri di poesia, quest’ultimo compreso) sembra corrispondere all’esigenza di controllo e alla pacatezza riflessiva che sono due dei segni più riconoscibili della sua pratica creativa. Il tono, alto da sempre ma di raccolta in raccolta vie più “scabro ed essenziale”, della sua dizione, l’aura “antica” del timbro e la preziosità di lessico e sintassi potrebbero far pensare un lettore disattento a un classico che giochi a soddisfare l’ardimentosa, antistorica voglia di abolire tutto il tempo che da lui ci distanzia. E invece, leggendolo con attenzione, e, dunque, scrostando, per così dire, quella che nelle prime due raccolte rischiava di apparire come una sorta di patina petrarchesca del suo universo linguistico, si scopre che nelle vene di quel marmo scorre, forse più scopertamente di prima, fra ruvidezza del parlato e “nobiltà” distanziante d’accenti, l’ansia di una ricerca umana del tutto in linea con lo spirito spaesato e febbrile che freme nel cuore profondo della nostra contemporaneità. Il misterioso ordine della totalità che albeggia, presente e lontanissimo, come una sorta di Eden perduto sotto la sferza di un sentimento sostanzialmente tragico della vita, da questo punto di vista fa da contraltare immaginario alla spaurante percezione del caos – al “delirante moto delle cose” – come legge cosmica fondamentale. La misura formale e il limpido magistero retorico arcaicizzante agito da sempre da Pontiggia valgono come grimaldelli stilistici per giungere in questo libro al nervo scoperto di una classicità sprofondata in un tragicissimo ma tuttavia oggettivo, “anti-egoistico” vis à vis con quanto i Greci ci hanno insegnato a chiamare destino. Che la poesia di Pontiggia si trovi nelle condizioni di un magnifico frutto giunto al colmo della maturità, è circostanza che la lettura di Il moto delle cose attesta con l’evidenza di un dato di fatto. Rovine, trombe, quando, quasi all’inizio della raccolta, riassume quest’idea fertile e difficilmente praticabile di poesia lirica:

Rovine, trombe, quando
chi siede, in un giardino
di pensieri e di aranci, sente
all’improvviso un urto, scricchia
il terso dei cieli, s’incavedia
il lume della vita – arco, stame

sfinge